Io spero nel passo falso della Juve

“Spes ultima dea” dicevano i nostri antenati. Per questo forse la speranza ha preso quel sapore da ultima spiaggia che ne ha fatto un sentimento illusorio. Come a dire che quando non c’è più motivo per credere alla rimonta, non resta che affidarsi alla speranza. Messa così anche io lascerei perdere ogni speranza. Come diceva il mitico Clint quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile, quello con la pistola è un uomo morto e in questo duello se noi abbiamo in mano la pistola allora la Juve sta di vedetta su un carro armato. In questi giorni in cui il progetto “-2 al boccaporto” ha segnato molte discussioni tra me i miei amici e questo sapore amaro con cui veniva coperta ogni mi speranza mi ha dato spesso fastidio. Sono così andato a rileggermi il mito di Pandora da cui il detto trova la sua origine.

Secondo Wikipedia: “Pandora, che aveva ricevuto dal dio Ermes il dono della curiosità, non tardò però a scoperchiarlo, liberando così tutti i mali del mondo, che erano gli spiriti maligni della vecchiaia, gelosia, malattia, pazzia e il vizio. Sul fondo del vaso rimase soltanto la speranza (Elpis), che non fece in tempo ad allontanarsi prima che il vaso venisse chiuso di nuovo. Prima di questo momento l’umanità aveva vissuto libera da mali, fatiche o preoccupazioni di sorta, e gli uomini erano, così come gli dei, immortali. Dopo l’apertura del vaso il mondo divenne un luogo desolato ed inospitale simile ad un deserto, finché Pandora lo aprì nuovamente per far uscire anche la speranza, ed il mondo riprese a vivere”

Sperare nel passo falso della Juve non vuol dire trasformare il credere nell’illudersi. Sperare nel passo falso della Juve vuol dire vivere con piacere una manciata di partite altrimenti prive di sapore. Sperare nel passo falso della Juve vuol dire tendere verso la meta di trasformare l’ennesimo campionato “desolato ed inospitale” in una gara avvincente. Mai come ora è necessario sperare di salire le scale del boccaporto a -2 il giorno di Roma-Juve. Poi per me può andare come deve andare, ma mai come ora bisogna avere l’orgoglio di fare uscire la speranza da quel vaso. Forse non per vincere. Certo però per vivere meglio quello che altrimenti sarebbe l’ennesimo campionato simile ad un deserto.

-2 al boccaporto…

-2 al boccaporto…

-2 al boccaporto…

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Io sogno (-2 al boccaporto)

Ebbene sì. Lo ammetto. Io sogno.

Sogno inspiegabilmente. Sogno irragionevolmente. Sogno di salire le scalette che portano al boccaporto l’11 Maggio 2014 a -2 dalla Juve.

Sogno con un pugno di cellule della capoccia che non vogliono ascoltare gli appelli della ragione.

La ragione fa appelli accorati al realismo.

Io li capisco.

Li capisco ma non posso non sognare.

Ebbene sì. Lo ammetto. Non controllo una parte di me. Non controllo un pugno di cellule della capoccia.

Sogno disperatamente. Sogno l’appuntamento con Gecko e Fausto sotto casa mia. Il citofono che suona. Io che scendo a -2 dalla Juve. Poi sogno che ci salutiamo facendo finta di niente. Perché in fondo saremmo sempre a -2.

Mi sudano le mani. Ora. Pensando alla gente sul Ponte Milvio a -2 dalla Juve.

Ebbene sì. Lo ammetto. Io sogno di affacciarmi a quel cazzo di boccaporto stando solo a -2. Non sono 11 punti. Se vinciamo col Parma non sono neppure 8 punti. Sono solo 6 punti. Se vinciamo col Parma ci sono solo 6 miseri punti che ci separano da questo sogno.

Io sogno. 6 miseri punti. Il frastuono. Il boccaporto. Ponte Milvio. Le scalette. Sogno e mi oppongo agli appelli della ragione. Non me ne frega un cazzo della ragione.

-2 al boccaporto…

-2 al boccaporto…

-2 al boccaporto…

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Di cosa parliamo quando parliamo di calcio

L’episodio della sciarpa celebrativa del derby perso dieci giorni fa’, non credo debba essere derubricato a episodio secondario, e merita una riflessione più profonda di quella che potrebbe vederci polarizzare tra falchi e colombe. Che una società si organizzi e prepari il materiale celebrativo in anticipo, è cosa che rientra nella normale attività di qualsiasi professionista, che tra i suoi compiti, anzi, tra i suoi doveri ha quello di prevenire, predisporre, insomma di pre-fare. Quello che invece sembra assurdo, ai nostri occhi di tifosi della strada, è la scelta di commercializzare quel materiale in anticipo, scelta che ha poi determinato l’effetto boomerang nei primi giorni post-partita.

Partendo dal presupposto che quella scelta sia non stata fatta per leggerezza oppure per incompetenza, perché un professionista del marketing è certamente più competente e attento di un tifoso della strada, mi sono chiesto come sia stato possibile che la gran parte di noi tifosi abbia ritenuto ridicolo un comportamento frutto di una scelta professionale. La risposta è probabilmente che noi tifosi (almeno una buona parte di noi) e quel tipo di professionisti non parliamo della stessa cosa quando parliamo di calcio.

Mettere in vendita una sciarpa celebrativa prima della partita vuol dire che l’oggetto da “celebrare” è l’evento e probabilmente questo era l’obiettivo dei professionisti che hanno fatto quella scelta. Purtroppo però celebrare un evento è in linea con la loro cultura sportiva, non so se di derivazione americana oppure autoctona, ma non è in linea con la nostra cultura calcistica. Nella nostra cultura calcistica quella partita non era uno spettacolo da celebrare in quanto tale. Non poteva esserlo un derby in finale, cosa mai successa in ottanta anni di storia e che non avrà una seconda volta nella vita di molti di noi. Quella partita era la rappresentazione simbolica di una guerra e la guerra si celebra solo se vincente. Mai quando si perde. Mai prima.

Celebrare una sconfitta non era certo l’obiettivo della scelta di mettere in vendita quelle sciarpe prima della partita, ma è stato l’effetto perverso di quella scelta fatta senza interrogarsi sul significato profondo delle emozioni in gioco. Fatta come mi pare troppe scelte siano state fatte, ovvero senza chiedersi: di cosa parliamo quando (qui e ora) parliamo di calcio?

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Cosa sta succedendo dentro di noi?

“Lo sai che te dico? Che quasi quasi manco me ne frega un cazzo de avè perso sta partita!”

Dopo questa frase detta da Gecko col cuore in gola e le lacrime che fanno capolino dietro le palpebre, non può che calare il gelo tutto intorno a noi. Forse per non disturbarlo mentre cerca di ricacciarle indietro verso il naso quelle lacrime. Perché piangere no, piangere è troppo. Anche in questo frangente..

Se non conoscessi ogni millimetro della sua passione, potrei capire chi ora pensa che lui non è un tifoso vero. Ma io li conosco tutti quei millimetri e ora avverto anche senza capirlo a fondo, il senso più profondo di quello che vuole dire. Lui, nato amico e diventato fratello attraverso riti e miti di gioventù, fatti di qualche gioia in mezzo ad un mare di sale sparso su ferite che sembrano destinate a riaprirsi ogni volta. Sempre per un’altra volta ancora.

“Che cazzo stai a dì?” prova a dirgli Fausto, un po’ perché certe cose non si possono sentire ma un po’ anche per cercare di dare un po’ di conforto ad un amico arrivato a dire una tale enormità.

Purtroppo non c’è modo di uscire da questo silenzio gelido. Purtroppo non c’è alternativa al nuotarci dentro, osservandone in apnea ogni aspetto, perché in fondo è vero, questa partita che un giorno sarebbe stata il sogno di un pezzo di vita lungo almeno tre anni stavolta l’abbiamo subita come ormai sembra stiamo subendo tutto. Inerti sacchi destinati ad incassare i pugni di un pugile invisibile.

Perché? Perché fratello mio arrivi a tanto. Perché dici una cosa del genere? Perché sei costretto a pensarla?

Affondo lo sguardo nella mia stessa tristezza, la analizzo, la divido in due per capirla meglio, e poi la frammento ancora fino a a farne oggetto di osservazione quasi indolore. Scopro così quello che ho perso. Emozioni, passione, appartenenza, valori. Concetti astratti. Li ritrovo perché tagliando e frammentando progressivamente gli istanti cadono via tutte le incrostazioni superflue. Il bilancio, il merchandising, gli ottanta milioni di tifosi potenziali in Cina, l’accordo con la wolkswagen. Ora è tutto più chiaro fratello mio. A noi di questa roba non ce ne frega un cazzo. Per noi se i soldi per un centravanti da sogno li caccia qualcuno di tasca sua oppure provengono dalla vendita di un milione di magliette è la stessa cosa. Quelli sono passaggi strumentali. Mentre noi vibriamo per il fine, raggiungibile o meno che sia, perché se fosse solo una questione di risultati avremmo scelto un’altra squadra, come in tanti hanno fatto e sempre faranno, mentre noi no, noi non l’abbiamo fatto.

Ora è tutto più chiaro davanti ai miei occhi. Quello che ci propongono, quello di cui continuano a parlare, quello su cui finiamo a discutere anche noi, sono solo strumenti, mentre la chiave della nostra passione è tutta nel fine, che non so se sia necessariamente la vittoria, ma di certo so che non ha nulla a che fare con la possibilità di vendere 20 milioni di magliette a Pechino.

Ecco perché stai così male fratello mio. Perché la tua anima ha capito che sta rischiando di perdere qualcosa che è ben più grande di una partita. Qualcosa che ti connette direttamente con il momento in cui, pischello di sei anni, ti sei trovato ad appartenere ad un gruppo che aveva le sue regole, i suoi destini, i suoi riti, e li aveva allora come li ha ora, ed è proprio perché sono quelli stessi, tali e quali che li amiamo così tanto. Per forza che non te ne frega un cazzo di una partita di fronte al rischio di perdere te stesso fratello mio, e per questo ti capisco, perché in fondo hai avuto il coraggio di dire quello che anche io avevo il terrore di aver pensato.

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Intorno all’uso scellerato degli errori come strumenti di autolesione

Prendersela con l’appoggio sbagliato di De Rossi sul primo gol subito dalla Roma a Genova sarebbe sbagliato come lo è stato prendersela con Tachsidis perché sbagliava appoggi in modo simile. Certo il tasso di analogia spinge a cadere nell’errore ma bisogna rimanere lucidi. Anche prendersela con l’incidente di Osvaldo sarebbe come prendersela con l’incidente di Goicochea col Cagliari. Prima che inutile sarebbe sbagliato perché strumentale. Funzionale ad uno scontro fratricida che ha un solo esito possibile: il disastro.

Della cosa avevo scritto già ai primi di Ottobre nel post “Guelfi e Ghibellini all’Olimpico”, quando si era solo alla settima giornata di campionato ma c’erano già gli elementi per capire attraverso quale vicolo cieco ci stavamo avviando. Non so se tutti coloro che facevano la guerra a Zeman si rendessero conto di quanto stava succedendo. Quelli in buona fede intendo, che chi invece agisce per fini diversi e confliggenti non credo appartenga a quel popolo di cui mi sento parte di cui sento il bisogno e il piacere di scrivere.

Allo stesso modo spero che chi per lungo tempo Zeman ha difeso si renda conto che è ora di mettere fine a questo scontro che inghiotte ogni episodio piegandolo alle logiche della strumentalità e deviandolo quindi dal suo reale significato. Lo spero perché la storia ci ha insegnato che in fondo allo scontro tra Guelfi e Ghibellini non c’è il successo dell’una o dell’altra fazione ma solo il dissanguamento della comunità e il trionfo di Signorie spesso legate ad interessi esterni.. So che è difficile perché questa modalità è nella nostra storia, nel nostro DNA.

In certi momenti è difficile togliere l’attenzione dal singolo episodio certamente carico di significato, difficile ma assolutamente necessario per poter alzare gli occhi e cercare di osservare il quadro che tutti quegli episodi compongono. Alzare gli occhi, fare qualche passo indietro per capire quali sono le pennellate messe male e chi è il loro “pittore”. Il resto sono inutili ferite inferte a noi stessi in un’infinita catena di azioni e reazioni che lascia tutto immutato.

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Qualcuno era Zemaniano

Qualcuno era Zemaniano perché vedeva il miglior attacco come una promessa, le sovrapposizioni come una poesia, il 433 come il “Paradiso Terrestre”.
Qualcuno era Zemaniano perché Zeman era una brava persona.
Qualcuno era Zemaniano perché troppi non erano una brave persone.
Qualcuno era Zemaniano perché si sentiva solo.
Qualcuno era Zemaniano perché aveva avuto un’educazione troppo difensivista.
Qualcuno era Zemaniano non sopportava gli ottusi antiZemaniani.
Qualcuno era Zemaniano anche se c’erano certi ottusi Zemaniani.
Qualcuno era Zemaniano perchè godeva all’idea dei calciatori costretti a fare i gradoni.
Qualcuno era Zemaniano perché aveva capito che la Roma quest’anno andava piano… ma lontano.
Qualcuno era Zemaniano perché era così ateo che aveva bisogno di un altro Dio.
Qualcuno era Zemaniano perché la squadra come la fa giocare lui non la fa giocare nessuno.
Qualcuno era Zemaniano perché godeva davanti alla colonna dei goal fatti.
Qualcuno era Zemaniano perché non guardava la colonna dei goal subiti.
Qualcuno era Zemaniano perchè con Zeman la condizione fisica è frutto solo dell’allenamento.
Qualcuno era Zemaniano perché lo scudetto oggi no, domani forse… ma dopodomani sicuramente…
Qualcuno era Zemaniano perché guardava sempre Goal di Notte.
Qualcuno era Zemaniano per moda
Qualcuno era Zemaniano perché voleva attaccare dovunque.
Qualcuno era Zemaniano perché non gliene fregava un cazzo di essere attaccato.
Qualcuno era Zemaniano perché non conosceva Cesar Gomez, Servidei, Tachsidis e Goicochea.
Qualcuno era Zemaniano perché aveva scambiato il 433 per il “Vangelo secondo Zeman”.
Qualcuno era Zemaniano perché era più Zemaniano degli altri.
Qualcuno era Zemaniano perché c’era il grande Zdeneck Zeman.
Qualcuno era Zemaniano nonostante ci fosse il grande Zdeneck Zeman.
Qualcuno era Zemaniano perché non c’era niente di meglio.
Qualcuno era Zemaniano perché la Federcalcio peggio che da noi solo l’Uganda.
Qualcuno era Zemaniano perché non ne poteva più di decenni di personaggi viscidi e ruffiani.
Qualcuno era Zemaniano perché il gol di Turone, il rigore su Gautieri, decine di gol fantasma, il fallo laterale di Aldair, la creatina eccetera, eccetera, eccetera.
Qualcuno era Zemaniano perché chi era contro era Zemaniano.
Qualcuno era Zemaniano perché non sopportava più quella cosa sporca che ci ostiniamo a chiamare campionato di calcio Italiano.
Qualcuno credeva di essere Zemaniano e forse era qualcos’altro.
Qualcuno era Zemaniano perché sognava un calcio diverso da quello che era costretto a seguire
Qualcuno era Zemaniano perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché era disposto a cambiare, perché sentiva la necessità di una morale diversa, perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la Roma.
Qualcuno era Zemaniano perché con accanto questo slancio ognuno era come più di se stesso, era come due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che almeo in un contesto come il calcio voleva spiccare il volo per cambiare veramente le cose.

E ora?

Ora non ci resta che sperare che il nostro sogno venga raccolto e portato avanti con orgoglio e dedizione perché come si dice spesso “le persone passano ma la Roma resta”. Senza però dimenticare il sogno di quel volo che la scorsa estate ci ha catturato. Sempre portando nel cuore il tuo sguardo che troppos spesso significava più di tante parole.

Grazie comunque per averci provato Boemo di Ghiaccio, e “Buona fortuna”

P.S.
Liberamente rivisto da un monologo di Giorgio Gaber

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“Me sa che te licenzio… Anzi no… forse dopo…”

Non so se a voi è mai capitata una cosa del genere ma francamente non credo, perché ogni datore di lavoro sa che dopo una comunicazione del genere il vostro impegno sarà quantomeno messo in crisi. Questo è successo ma non è tutto, perché è successo sotto gli occhi di tutti. Temo che chi dovrebbe avere a cuore ciò che anche noi tifosi abbiamo a cuore non abbia chiaro il contesto in cui sta operando. Un contesto fatto non solo di scelte e risultati ma anche di simboli e valori. Per capire la qualità di certi comportamenti, vorrei analizzarne uno, senza dietrologie e stando rigorosamente ai fatti.

Lunedì 28 gennaio, in un ambiente saturo a causa delle dichiarazione avventate di Zeman comincia una conferenza stampa di Sabatini che tra le altre cose dice che di lì a poco si sarebbe incontrato con l’allenatore e che la società sta valutando di esonerarlo. In seguito l’incontro salta e viene rinviato a martedì.

Si va tutti a dormire in un clima del tipo… “Me sa che te licenzio…”

Martedì 29 gennaio i dirigenti incontrano Zeman un paio di volte e tra le altre cose scopriamo che l’allenatore è confermato e che tutto il caos deriva da un’incomprensione chiarita in mezz’ora di incontro. La dirigenza aveva avuto l’impressione che Zeman non ci credesse più.

Si va tutti a dormire in un clima del tipo… “Anzi no… forse te le licenzio dopo… ma forse…”

Comunque la si guardi la conferenza stampa di lunedì mi sembra un errore grossolano, già in generale ma soprattutto in particolare, se il problema era un difetto di comunicazione risolvibile in mezz’ora. Se quell’incontro fosse stata fatto prima di quelle dichiarazioni pubbliche non ci sarebbe stato tutto questo caos. Se le cose stanno come ci hanno raccontato professionisti avveduti quella conferenza stampa la dovevano rinviare. Così ora non ci troveremmo con un allenatore più debole ma anche con una dirigenza indebolita. In due parole in tutta questa storia chi si è indebolita è la Roma, e questo a causa delle scelte di persone la cui attività dovrebbe invece rafforzarla.

Si va tutti a dormire in un clima del tipo… “Ma sta chiacchierata nun se la potevano fa’ prima de montà tutto sto casino?”

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Il tempo sospeso

Il presente è qualcosa di strano. Di indefinibile forse. Di certo sappiamo solo che discrimina tra il passato e il futuro, ma di altro sappiamo poco. A volte sembra un periodo di tempo lungo e infinito mentre altre volte sembra sottile come una lama di rasoio.

Non è indifferente capire quanto duri il presente perché è proprio in questo tempo così elastico che albergano le nostre emozioni, perché il resto è solo nostalgia per quello che ormai è stato oppure sogno di quello che forse sarà.

Sarebbe bene che il presente fosse un tempo sufficientemente ampio per goderne e per preparare il futuro. Già preparare il futuro. Condizione essenziale del presente. Condizione senza la quale questo si trasforma in un tempo sospeso privo di sapore e di significato.

Le dichiarazione dei dirigenti della Roma mi sembra abbiano tolto a Zeman ogni futuro espungendolo dal presente e collocandolo in quel tempo sospeso. Sebbene con il cuore ferito spero che abbiano ora il coraggio di anticipare il futuro per non lasciare anche la nostra passione in quel tempo sensa senso.

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“Quer pasticciaccio brutto der centrocampista centrale” – Parte seconda: parlare a nuora perché suocera intenda

 “Io non ce l’ho con lui. Io ce l’ho con chi lo mette in campo”.

Capita di sentirla spesso questa frase tra le file del settore Distinti Sud, ma credo anche in tutti gli altri, per non parlare dei salotti in cui la partita arriva tramite satellite. Capita di sentirla spesso, a proposito di Taxidis, questa frase che smaschera l’artificio retorico di chi volendo abbattere ad un bersaglio, mira verso un altro. Parlare a nuora perché suocera intenda si dice nei contesti meno ma spesso capaci di immagini più vivide.

Siamo una comunità divisa. Diciamocelo. Ci siamo divisi sugli esiti ultimi della gestione Sensi. Ci siamo divisi sui primi vagiti della nuova gestione. Ci siamo divisi su Luis Enrique, e infine oggi siamo divisi su Zeman e su De Rosssi. Domani chissà su cosa ci divideremo, ma oggi la faglia attraversa quel pezzo di erba e terra posto al centro del centro del campo.

Non è chiaro come e perché siamo arrivati a questo punto e ancor più difficile è capire come uscirne. A prima vista le soluzioni più evidenti sono rappresentate dalla negazione degli elementi della divisione, vale a dire dall’esclusione di Zeman o di De Rossi. Solo che in questo caso si assisterebbe al trionfo di una parte sull’altra, un trionfo in cui si finirebbe per non fare prigionieri scatenando divisioni ancora più profonde alla prima occasione buona.

Siamo una comunità divisa, ed è importante dircelo per non essere costretti a mirare a bersagli indiretti per rimanere nell’ombra mentre si cerca di abbattere il bersaglio vero. È quello che sta succedendo al povero Taxidis, ventunenne di buone speranze, non ottime forse ma buone sembra di si. Che colpa ha lui se il gioco di Zeman richiede un adattamento del singolo alle esigenze del gruppo? Che colpa ha se quell’adattamento De Rossi manifesta difficoltà ad assecondare?

Taxidis è l’unico che non c’entra niente in questo scontro, ma infatti quello che si sente ripetere è che la colpa non è sua ma di chi lo mette in campo. Non si pronuncia il nome del bersaglio vero, che è Zeman e non si afferma ciò che si vuole affermare ovvero che in quel ruolo dovrebbe giocare De Rossi.

Si potrebbe obiettare che è evidente che le cose stanno in questo modo, ma un conto è un non detto che si capisce e un conto è un detto esplicitamente. Nessuna soluzione si trova se non dall’analisi razionale del problema. Il non detto rende tutto meno nitido e dove non c’è chiarezza è più difficile trovare una soluzione, mentre lo schieramento implica assunzione di responsabilità, coraggio, scelta, decisione. Il problema della Roma non è Taxidis. Taxidis è solo un modo per non parlare del problema vero.

Se siamo una comunità divisa è inutile fare finta di niente professando comunione di intenti sugli obiettivi generali per poi scannarci su bersagli indiretti. Molto meglio schierasi a viso aperto, scegliere una via d’uscita, e percorrerla tutti insieme, anche i più riottosi. Molto meglio che continuare a stare fermi all’imbocco del bivio per il terrore di ammettere di essere divisi sulla strada da imboccare.

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Un anno di kammamuri.it (anzi otto mesi)

Con la fine dell’anno matura il tempo dei bilanci e anche io voglio cogliere questa occasione per dare un’occhiata a questo primo anno di kammamuri.it. A dire il vero si tratta di otto mesi scarsi visto che il primo post, dal titolo “Meglio Zeman o Bacone?”, risale al 10 Maggio del 2012 quando cominciarono a circolare le prime voci sul ritorno di Zdeneck Zeman alla Roma.

Da allora ci sono state quasi 3.000 visite e colgo quest’altra occasione per ringraziare tutti quelli che sono passati di qua e in particolare quelli che hanno voluto sostenere questo progetto citando su Facebook o su Twitter i post graditi. A proposito di gradimento la top five è risultata la seguente:

  1. Vorrei il Nobel per la poesia a Francesco Totti
  2. Se torna Zema’ me faccio tre abbonamenti”
  3. Contro il calcio globale
  4. Pronti… Via!
  5. Sosteneva mio nonno

Per quanto riguarda le ricerche fatte su Google in seguito alle quali qualcuno è sopraggiunto in questo blog, oltre a quelle legate alla mia identità reale o virtuale, spiccano “poesia francesco totti”, “Totti nobel”, “friccicore signifcato”  e “quattrotrettre” a testimonianza del valore popolare della passione calcistica. Spulciando tra le statistiche si scoprono anche ricerche singolari tra le quali alcune meritano una segnalazione:

  • odio l’anticiclone delle azzorre (potere del caldo che confonde  le menti)
  • roberto falcao nudo (No comment!!!)
  • bartelt tossico (A proposito… che fine ha fatto? Spero non questa…)

e infine la seguente ricerca che sembra quasi uno sfogo:

…chi ben comincia parte a razzo. e poi tutti sappiamo come finisce. metà dell’opera? l’opera la devi far tutta

Io per il momento ho cominciato e non so se possa considerarmi a metà dell’opera o meno. Nel dubbio raccoglierò la raccomandazione dell’ignoto visitatore del blog e cercherò di andare avanti come ho fatto in questi primi mesi. Sperando che la Roma alimenti questa passione anche con qualche soddisfazione.

Come si diceva un tempo… “Buona fine e buon inizio…”

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